Riccardo Wilczek, l’operaio celeste e la poetica pittorica del silenzio

Si è conclusa, domenica 27 febbraio ai Magazzini della Lupa di Tuscania, la personale di pittura e scultura dell’artista polacco Riccardo Wilczek, l’operaio celeste, come lui stesso ama definirsi. Nato a Makow Podhalanski nel 1963, vive in Italia da circa 15 anni. Autodidatta, ha partecipato a varie collettive e personali in Italia e all’estero. L’arte di Wilczek è una pittura metafisica in cui le figure umane, protagoniste principali delle sue opere, subiscono continuamente delle metamorfosi, in una voluta assenza di prospettiva tradizionale. Solo in determinati casi, l’artista crea dei chiaroscuri per mettere in evidenza parti anatomiche privilegiate come le mani o i piedi. L’agire avviene per mancanza di cerebralità o di ragionevolezza, il corpo privo di un volto, si fa pura poesia. Le mani racchiudono l’enigma dell’esistenza e simboleggiano un’umanità che cerca di divincolarsi dalle strettoie del proprio destino e dalla propria condizione. Non serve il pensiero cerebrale, tutto nasce dal sentimento dell’artista che riesce a comunicare con una realtà che va oltre i limiti del visibile. La figura umana, anche se in questo caso si può parlare più precisamente di ibrido umano, aderisce completamente alla tela attraverso cuciture e tratti marcati. Cuciture che sembrano ferite, cesure nell’interiorità dell’individuo che assume a volte atteggiamenti nichilistici in un’assenza totale di movimento, a volte gestualità dinamiche che esprimono il tentativo di fuga da una situazione inquietante senza nome. L’essere umano è lì in quei colori a volte accesi, a volte cupi, autoritratti che infrangono le leggi del tempo e dello spazio. Osservando le opere di Riccardo, ci si trova immersi in una sorta di limbo inenarrabile, dove il silenzio della vaghezza è più forte della narrazione pittorica. L’incertezza dell’esistenza si svela nella mancata definizione dell’individuo stesso. Osservando un’opera di Wilczek ci domandiamo: cosa sto guardando, un essere umano, un oggetto o un suo surrogato? Non vediamo anatomie riconoscibili e abituali. Ciò avviene se restiamo semplicemente alla superficie, se ci fermiamo al primo sguardo. Ma è proprio questa irriconoscibilità che crea un’attrazione inspiegabile verso le tele di Riccardo, l’indefinibile ci inquieta, ci invita a scrutare ulteriormente dentro di noi per capire da cosa dipende questa sensazione di smarrimento. L’opera di Wilczek allora diventa uno specchio delle nostre emozioni più inconsce, quelle che temiamo restando soli con noi stessi: l’assurdo, la paura, l’angoscia e la solitudine. Tuttavia, nulla è perduto per sempre; uno spiraglio di speranza, una luce improvvisa accende la nostra interiorità rivolgendoci alla tela. Laddove percepisco un dolore, mi riconosco e provo qualcosa, anche se ancora indefinibile, riesco a sentirmi ancora un essere umano. Il dolore dell’artista è purificante, scuote le nostre coscienze, ci porge un’essenza di verità che ci tocca profondamente. Riccardo Wilczek, è un artista che non ci lascia indifferenti, anzi, riesce in modo eccellente a comunicare la propria visione del mondo, attraverso uno stile singolare ed unico. La sua poetica è il silenzio, un silenzio che si fa portavoce delle emozioni, un silenzio che amplifica il rumore dell’anima.

Vincenza Fava (Italia Sera, 4/03/2011)

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